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il concetto di ON

Karate and Culture

Il concetto di ON




La cultura occidentale, improntata com’è alla  venerazione del successo e delle vittorie personali, identifica i propri  eroi in quei valorosi individui, uomini o donne, che riescono a far  trionfare la propria causa. E questo è vero indipendentemente che essi  sopravvivano per godersi la fama delle proprie gesta o muoiano  nell’impresa: ad ogni modo i loro sforzi ed il sacrificio saranno stati  qualcosa che valeva la pena fare, qualcosa di utile, per lo meno un  esempio da tramandare alle generazioni future.

Ovviamente  anche il Giappone - come ogni civiltà - ha i propri eroi di successo,  ma quel che in questa complessa cultura appare più interessante è la  figura di un eroe diverso.

Il contesto  storico-sociale in cui vive, la viva coscienza morale contraria a  qualsiasi compromesso, il forte senso di responsabilità, il coraggio e  la forza di volontà lo porteranno a porsi completamente agli antipodi di  quella che è l’etica del successo. Tali caratteristiche particolari ed  il suo essere portato per natura a sostenere la causa perdente lo  condurranno inevitabilmente alla sconfitta. Sarà vinto non da un nemico,  un avversario, ma dalla politica spregiudicata e senza remore che  questi adotta con esito positivo, e alla quale l’eroe non può  assolutamente chinarsi in nome della sua moralità, pilastro di condotta.

Alla  vergogna causata dalla sconfitta e dalla cattura l’eroe opporrà  l’estremo sacrificio per riscattare il proprio onore, dando prova di  sincerità e fedeltà alla causa. Ed egli sarà pronto, agirà con  impressionante fermezza di spirito e determinazione.

Traendo  le conseguenze, non soltanto la sua morte rappresenterà il definitivo  crollo della causa di cui si è fatto campione, ma si vedrà che la lotta  sarà stata inutile e spesso controproducente. Questo è l’aspetto che più  attrae un popolo come quello giapponese, estremamente affascinato  dall’acuta sensibilità di quei personaggi patetici e solitari fuori del  comune, impetuosi e indomiti, che con coraggio contrappongono, sino  all’estremo gesto, la propria purezza e rigore morale alla condotta  spregiudicata ed eticamente scorretta che tuttavia condurrebbe al  successo. E’ proprio l’aver lottato con tutte le forze in nome di una  causa già persa in partenza e l’inevitabile sconfitta che conduce alla  morte (che sia per mano del nemico o propria), che testimonia  l’inutilità delle umane gesta e la caducità della vita, ma non una  condotta disdicevole.

Gli eroi della tradizione  occidentale sono quasi sempre vincenti e ciò contribuisce a formare  nella mente del popolo il binomio vittoria-eroe; questo genere di prode  giapponese rifiuta invece il successo ottenibile a qualsiasi costo ed è  persino disposto alla morte pur di mantenere la purezza dei propri  intenti, compromettendo la quale scenderebbe su di lui il disonore. Il  lieto fine, quello che in Occidente è rappresentato dalla strenua lotta  contro ogni ostacolo e difficoltà per il raggiungimento della felicità  personale, in questa parte del mondo non gode di buona fama: il  sacrificio è motivo ispiratore di compassione e solidarietà,  profondamente avvertiti dal popolo giapponese; dà prova della grande  forza di volontà e senso del dovere con cui il protagonista ha deciso di  percorrere la retta via senza che nulla, neppure la morte, possa  ostacolarlo. Percorrere la retta via significa agire in maniera consona  all’etichetta, rispettare la consuetudine socialmente accettata, e ciò  viene maggiormente apprezzato se in contrasto con le proprie passioni.

I  sentimenti, e tra questi anche la paura, fanno indissolubilmente parte  della natura dell’essere umano; è costume del popolo giapponese ben  vedere chi riesce a soddisfare i propri bisogni materiali, chi è in  grado di godersi la vita. La condizione è tuttavia che le passioni umane  non interferiscano nell’assumere una condotta onorevole, cioè non  impediscano di comportarsi secondo etichetta, secondo quanto previsto  per la propria posizione in qualunque circostanza.

Di  conseguenza, tanto più il sacrificio dell’individualità sarà alto,  tanto più la condotta dell’uomo sarà onorevole e indice di nobiltà  d’animo.

L’eroe diviene l’ispiratore di una  certa simpatia per la sconfitta, dimostrando la dignità che da essa può  derivare se la si affronta con una morte onorevole e decorosa. Una vita  votata all’onore e alla rettitudine troverà la sua massima espressione  in una morte dignitosa e conforme alle regole etiche imposte dalla  società.


Il prototipo dell’eroe giapponese: Yamato Takeru


Il  principe Yamato Takeru rappresenta il modello dell’eroe giapponese  descritto in precedenza. Egli appartiene a quella folta schiera di  personaggi della tradizione del Giappone classico, a cavallo tra realtà  storica e leggenda. “Yamato Takeru” è tuttavia una denominazione:  propriamente significa “Eroe del Giappone”, in quanto Yamato ( 大和 ) era  il nome con cui veniva definito il Giappone classico e Takeru ( 長ける) è  un verbo che esprime il concetto di eccellere, essere superiore e, per  estensione, identifica l’eroe.

Yamato Takeru fu  il secondo dei gemelli nati dall’imperatore Keikō (IV secolo d.C.) e la  tradizione narra che il sovrano, stupito dell’evento, abbia presentato i  due figli salendo su un grande mortaio da riso ( 臼, usu). Il primo nato  venne quindi chiamato Oousu ( 大臼, “grande mortaio”) ed il futuro prode  Ousu (小臼, “piccolo mortaio”). Già in un episodio della sua infanzia è  possibile scorgere quei tratti tipici dell’eroe diverso, la cui moralità  e abnegazione porta a gesti estremi, eccessivi ed efferati.  Nell’antichità, presso la Corte, era per i principi segno di lealtà nei  confronti del padre essere presenti al momento del pasto. Quando il  maggiore dei gemelli mancò a tale consuetudine, l’Imperatore chiese al  minore di rimproverare il fratello a suo nome. Il futuro eroe non si  fermò ad un semplice rimprovero, ma addirittura lo uccise e lo tagliò a  pezzi.

Questo comportamento dà un esempio del  temperamento violento ed impetuoso del personaggio e del modo in cui  egli considerasse la fedeltà nei confronti dell’Imperatore suo padre.  Quel gesto efferato avrebbe segnato profondamente la sua vita,  destinandolo a lotte continue e sforzi estremi senza che gli fosse mai  concesso di tornare finalmente a Corte. L’imperatore infatti decise di  allontanare il figlio, inviandolo a sottomettere le selvagge tribù che  infestavano il territorio (interessante notare che Ivan Morris, uno dei  più autorevoli studiosi inglesi di culture asiatiche, esplicitamente  afferma che l’eroe non venne neanche provvisto di truppe per la sua  impresa4). A quell’epoca il Giappone non era ancora unificato e  l’obiettivo del sovrano si sarebbe raggiunto soltanto con la  sottomissione di tali popoli. Missione che il prode portò a termine con  estremo coraggio e dimostrando una spregiudicata astuzia. Fu uno dei  capi locali da egli sconfitto a conferirgli la denominazione di Yamato  Takeru, proprio perché in quelle regioni selvagge non esistevano  valorosi alla sua altezza.

Ciò nonostante, di  ritorno nella capitale dopo ogni estenuante missione, egli non era mai  accolto come un eroe vittorioso né gli era concesso di riposare sugli  allori perché subito veniva inviato a sottomettere nuove tribù. Era  chiaro che il sovrano intendesse tenere Yamato Takeru il più lontano  possibile temendo il suo indomito temperamento. Il principe soffriva  molto a causa dell’atteggiamento del padre, ma obbediva agli ordini  senza discutere. La sua figura inizia ora ad assumere i caratteri di  quell’eroe che, malgrado la profonda fedeltà all’Imperatore e le  proverbiali imprese, in nome di un rigido codice di condotta votato alla  lealtà e al coraggio è destinato ad un continuo errare, sino alla  sconfitta e alla precoce morte. Nella parte finale della sua storia, gli  avversari sono maligne divinità, come se ormai nessun nemico  semplicemente umano possa contrastarlo. Le ferite riportate dai diversi  combattimenti ed il suo triste destino lo condurranno ad una morte  solitaria; sarà soltanto a questo punto che l’Imperatore, preso dallo  sconforto per aver sacrificato il figlio divenuto solo allora  prediletto, riconoscerà l’immenso valore e la fedeltà dell’eroe.


L’ on

Quanto  detto sopra risulterebbe forse più chiaro definendo una delle  concezioni base su cui si fonda la società giapponese, tanto complessa  dal punto di vista dei rapporti interpersonali: l’ on ( 恩 ). L’on è  sempre apparso un concetto di non facile comprensione, soprattutto se lo  si analizza dal punto di vista dell’etica e della morale occidentale. È  bene perciò considerare la questione nei suoi aspetti più  caratteristici cercando di liberarsi per un istante da quel modo di  pensare, da quella forma mentis che la nostra società richiede.

Non  vi è una traduzione ben definita del termine “on”, ma esso esprime per  lo più la condizione di sentirsi obbligati, in debito. L’assenza di un  corrispondente preciso è dovuta al fatto che questa parola assume  connotazioni di significato diverse a seconda della situazione in cui si  riscontra; può infatti essere tradotto con “obbligatorietà”,  “devozione”, “lealtà” o persino “gentilezza”. Ad ogni modo identifica un  peso, un obbligo, un debito che si ha verso qualcuno. In tal caso,  ripagare questo debito diviene per un giapponese di fondamentale  importanza, a volte vitale, poiché ne va del suo stesso onore.

I  giapponesi distinguono, in maniera abbastanza complessa, diversi generi  di on, a seconda della persona da cui lo si è contratto. Si contrae  quindi un debito nei confronti dell’Imperatore (verso il quale i  giapponesi nutrono un immenso rispetto e profondo e sincero affetto),  del proprio signore, del proprio maestro, dei propri genitori e così  via. Il debito dell’on viene contraccambiato, o per meglio dire saldato,  tramite i reciproci gimu (義務) e giri (義理). Entrambi termini traducibili  con “dovere da assolvere”, ma ben distinti: il gimu rappresenta la  forma più completa di pagamento, assolutamente obbligatoria ed  illimitata nel tempo; con questa forma si ricambia il debito nei  confronti dell’Imperatore e dei propri genitori (anche attraverso  l’educazione da impartire ai propri figli, ad esempio). Il giri è invece  considerato come un saldo da effettuare con matematica equivalenza  rispetto al favore ricevuto ed è limitato nel tempo; può per questo  motivo accumulare interesse a seconda del tempo trascorso sino al suo  adempimento. In relazione all’argomento trattato, sposterei maggior  attenzione sul “giri-nei confronti-del-proprio-nome”5.

Da  esso infatti scaturisce il dovere di cancellare il disonore derivante  da un’offesa o un insuccesso, il dovere di rispettare le regole di  convenienza, come ad esempio mantenere sempre un atteggiamento decoroso e  consono alla propria posizione sociale in qualsiasi circostanza,  dimostrare un costante autocontrollo e non lasciar trasparire alcuna  emozione in occasioni non appropriate.

La  relazione tradizionalmente più importante tra quelle espresse dal giri è  il rapporto che lega al proprio signore e ai compagni d’arme. Nel  Giappone antico esso veniva addirittura ritenuto superiore a quello che  oggi si deve all’Imperatore e che al tempo si rivolgeva allo Shōgun.  Questa categoria di giri rappresentava il massimo grado di quelle virtù  che un samurai dovesse a tutti i costi possedere per essere considerato  dalla società, senza alcun dubbio, un uomo d’onore. Poiché il signore  feudale (il daimyō) doveva provvedere al mantenimento dei suoi seguaci e  guerrieri, quest’obbligo richiedeva la più devota fedeltà al proprio  mecenate nei confronti del quale si era debitori di tutto, spesso anche  della propria vita. Tuttavia tale codice non era a senso unico:  frequenti sono infatti nella storia del Giappone episodi in cui ad un  samurai offeso dal proprio daimyō fosse concesso, secondo lo stesso  giri, il diritto di abbandonarlo o passare addirittura al nemico. Sia  che rimanesse assolutamente fedele al proprio signore o che si  vendicasse abbandonandolo in caso di offesa, la condotta del samurai  restava ad ogni modo nell’ambito di quanto fosse previsto, per il suo  rango, in una simile situazione. In Giappone era ed è tuttora indice di  buone maniere e sobria eticità sapersi conformare a ciò che dalla  società è ritenuto più consono alle circostanze.

Tuttavia,  può spesso accadere che i differenti codici di comportamento di cui si è  parlato nei precedenti paragrafi, entrino spesso in conflitto tra loro.  Questo accade quando una circostanza può ad esempio richiedere di  rispettare due categorie di on ben distinte tra loro. In tal caso, il  criterio da adottare è di tipo gerarchico, dando precedenza alla  categoria che la circostanza identifica come prioritaria, ma ciò non  significa che non si debba assolvere comunque ad entrambi i doveri. Tale  atteggiamento è di fondamentale importanza nella collettività  giapponese, dove il timore di quello che gli altri possono pensare o  dire di determinati comportamenti non previsti da ciò che è stabilito  per convenzione condiziona largamente la vita del singolo. Inosservanze  del genere sono causa di disonore: si viene accusati di non conoscere il  giri e ciò porta a venire isolati, una sorta di morte sociale.  Nell’antichità è spesso accaduto che l’unico modo di conciliare e  adempiere a doveri in apparente contrasto tra loro fosse la morte, anche  a costo di commettere l’ormai celeberrimo suicidio tradizionale  giapponese: lo harakiri o seppuku. In altre parole, l’individuo sbaglia  nel momento in cui lascia che le passioni prevalgano sugli obblighi cui  deve adempiere o si trova nell’impossibilità di saldare un duplice  debito.
Come valido aiuto nella comprensione dell’argomento  di cui sto trattando citerò l’episodio dei Quarantasette Rōnin, da  sempre uno degli atti di eroismo del Giappone dell’epoca samuraica  (periodo di Edo, 1600-1868) tra i più celebrati dalla letteratura.


I Quarantasette Rōnin

Come  ogni evento che acquisti nel tempo grande notorietà e ammirazione,  questo episodio storico subisce talvolta alcune varianti a seconda delle  versioni; Ruth Benedict, nell’opera Il crisantemo e la spada6, narra  che nel 1701 il signore di Asano fosse uno dei due daimyō scelti come  addetti al cerimoniale di giuramento di fedeltà che gli stessi signori  feudali dovevano periodicamente prestare allo Shōgun. Non a conoscenza  di come la tradizione prescrivesse di abbigliarsi in una simile  circostanza, il signore di Asano ritenne opportuno richiedere il  consiglio di un importante daimyō, il signore di Kira, che senza dubbio  avrebbe potuto essergli d’aiuto. Commettendo tuttavia l’imperdonabile  errore di presentarsi al suo cospetto senza alcun dono da offrire in  cambio, il signore di Asano suscitò lo sdegno del consigliere; perciò  questi decise di vendicarsi dell’affronto suggerendogli di vestirsi in  modo tutt’altro che appropriato all’evento. Solo durante la cerimonia il  beffato si rese conto dell’offesa subita; a questo punto il  “giri-verso-il-proprio-nome” gli avrebbe imposto di lavare l’offesa  uccidendo il signore di Kira, ma sguainando la spada nel palazzo dello  Shōgun il signore di Asano aveva violato un tabù, macchiandosi a sua  volta di offesa per aver infranto uno dei doveri dell’on nei confronti  del suo superiore. Il signore di Asano poteva espiare la colpa  unicamente dandosi la morte tramite seppuku. Egli era comunque caduto in  disgrazia presso lo Shōgun e nessuno dei suoi parenti volle  succedergli. Per questo motivo, i beni della famiglia di Asano vennero  confiscati ed i samurai che vi erano al servizio rimasero senza padrone,  divennero cioè dei rōnin. Per fedeltà al proprio signore, anch’essi  avrebbero dovuto fare seppuku come lui, ma quarantasette di essi  ritennero che una simile azione da sola non sarebbe stata sufficiente ad  estinguere il debito che il rango di samurai imponeva nei confronti del  loro padrone. Avrebbero prima dovuto portare a termine la vendetta da  questi precedentemente intrapresa. Il gruppo s’impegnò solennemente a  perseguire il compito, giurando che niente li avrebbe distolti dalla  missione, anche ignorando di assolvere doveri derivanti da altri on a  costo di apparire ignobili agli occhi della società. Sviarono ogni  sospetto relativo ai propositi fingendosi incuranti degli obblighi etici  previsti, con l’ovvia conseguenza della morte sociale, sino al momento  propizio per sferrare l’attacco. Nel 1702, I quarantasette rōnin  penetrarono nel castello di Kira, custodito come una fortezza, e gli  imposero il seppuku. Kira si rifiutò dimostrando la sua codardia, ma la  vendetta venne portata a termine tramite la decapitazione. Solo allora  essi poterono presentarsi dinanzi alla tomba del proprio daimyō. I  quarantasette rōnin si erano tuttavia macchiati di disonore poiché  congiurare in segreto nei confronti di chi - come il signore di Kira -  ricoprisse una posizione sociale troppo vicina allo Shōgun, equivaleva a  violare i loro doveri nei confronti dello Shōgun stesso. Nel 1703 essi  vennero quindi sottoposti a processo, ma dopo aver a lungo riflettuto  sulla punizione da infliggere, anziché giustiziare i trasgressori alla  stregua di criminali comuni, lo Shōgun decise di concedere loro l’onore  del suicidio rituale: i quarantasette rōnin avevano dimostrato un ferreo  rispetto del giri e ciò rappresentava pur sempre qualcosa di esemplare,  degno di essere tramandato attraverso i secoli. Perciò, dopo aver  vendicato il proprio signore e aver adempiuto ai doveri del giri, con il  seppuku ogni obbligo contratto venne assolto.




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